lunedì 27 febbraio 2012

Letture

Ha gli occhiali sulla punta del naso e legge attentamente. La pinza di plastica lega una crocchia di capelli così in punta sulla testa da sembrare un bacio-perugina. 
Sfoglia compiaciuta le pagine lucide leccando il dito, e non si lascia distrarre dalle fermate che si susseguono. 
La vedi segnare un appunto, poi rimanere con la penna sospesa per aria, nell'attesa del prossimo passaggio da evidenziare. 

Si distoglie un istante dalla lettura, si risveglia dal trance e leggermente affannata ripiega ogni cosa, preparandosi a scendere alla fermata successiva. 
Mi guarda un istante senza vedermi, poi scivola via con quella fiumana indistinta di cappotti grigi giù per la scaletta metallica del tram. 
La sua borsa multicolore e il cappottone fiorato sembrano appartenere a due mondi separati, così come le scarpe polverose appartengono sicuramente ad un'altra epoca. 
Osservo dal finestrino, e mentre riparto, chiusa in questa lattina rumorosa, un foglio piegato con troppa fretta le scivola ondeggiando sul selciato. 
Si volta e indugia ma viene trascinata dalla corrente di cappotti grigi verso una meta oscura. 
Il foglio resta a terra, calpestato, le foto del prosciutto cotto e dei piselli in offerta cerchiate due volte.
Ma lei lo conosce già a memoria. 

domenica 26 febbraio 2012

Ciao amico

Ti saluto amico sincero, compagno di anni trascorsi vicini, figlio fedele. 
Ti allontani, sguardo liquido, cieca fiducia. 
Ti accompagno fino a qui, su questo letto che conosci e ti spaventa da sempre, e da qui dovrai proseguire da solo. 
Da qui dovrò proseguire solo anche io, amico mio, e porto il mio dolore chiuso nel pugno che stringo forte. 

Ti saluto amico dal naso umido, scodinzolante invadenza, le nostre strade divergono qui. 
È per aiutarti che ti accompagno, è per rispondere al tuo sguardo implorante che ti accarezzo anche se oggi sono il tuo carnefice.
Ti alleggerisco di un peso che non osavi scrollarti di dosso, forse per non deludermi. 

Ti saluto  amico mio, amore cieco; spero che ci sia un posto da qualche parte in cui, arrivando un giorno, ti troverò ad aspettarmi con il guinzaglio in bocca. E spero che in quel posto, nell'attesa, ci siano tante palline da tennis colorate per te!


(in memoria di Zar, e anche di Mira e Drago... Dolci amici)

venerdì 24 febbraio 2012

Chiedo scusa

Chiedo scusa per la mancanza di coerenza con il titolo del blog.
Non appena le mie condizioni me lo permetteranno tornerò a scrivere unraccontoalgiorno!

venerdì 17 febbraio 2012

Il richiamo del vento

Lisa guardò gli alberi mossi dal vento, mentre il vetro si appannava in cerchiolini davanti al suo respiro leggero.
Era profondamente agitata da un richiamo ancestrale che la spingeva a scappare, e si sentiva in trappola.
Quando il vento cambiava si sentiva fremere dal desiderio di lasciare tutto e seguire la danza delle foglie fino ai confini dell’orizzonte. Avrebbe lasciato persino i suoi figli, se solo quella maledetta porta fosse stata aperta!
Ma Manolo la chiudeva a doppia mandata ogni volta che usciva, guardandola con un misto di compassione e sospetto prima di sparire alla sua vista. Sembrava sapere perfettamente quello che la agitava dentro.
Ma prima o poi si sarebbe distratto, e allora sì che sarebbe stato il suo momento.
Già si vedeva affannata in una corsa a perdifiato lungo il vialetto, seguendo le rondini, fino al vicino ruscello che conosceva soltanto da quello scorcio intravisto dalla finestra del piano di sopra.
Lo avrebbe costeggiato stando attenta a non bagnarsi, respirando a pieni polmoni la libertà.
Lo amava, certo, ma lui non la lasciava libera di scegliere e questo la faceva sentire in gabbia.
Manolo pensava a tutto, dal cibo, alle visite mediche, ai suoi figli… e a lei non restava altro ruolo che fargli compagnia quando lui la cercava. Ben poca cosa, se confrontata con quello per cui scalpitava.
Nessuno dovrebbe sentirsi così, sembrava pensare. Si allontanò dal vetro e bevve un sorso d’acqua. Lui sarebbe tornato di lì a poco, aveva già sentito il motorino accanto al cancello.
Si avvicinò alla porta per aspettarlo, e sentì la chiave nella toppa.
Era uno di quei giorni in cui il richiamo era insostenibile, e sarebbe passata sopra a chiunque pur di seguire quella voce che le gridava di uscire.
La porta si aprì e Manolo entrò svelto, pronto a chiudere.

Ma il caso si intromise, e guidò la grossa scarpa proprio su un topolino di legno, lasciato in giro dai soliti confusionari giochi dei piccoli.
Quella fu l’occasione agognata: Lisa lo spintonò mentre barcollava, infilandosi a rotta di collo giù per il vialetto.
Lui non provò nemmeno a seguirla.
Sentì solo che gridava “Lisa!”, ma lei non si girò, né rallentò la sua corsa inconsulta.
Era finalmente libera!
Seguì i suoi ricordi e arrivò al fiume, e corse, corse felice, incalzata dal vento.
Solo quando il cuore le sembrò esplodere nel petto, quando fu sicura di essersi allontanata a sufficienza, si concesse una sosta e si guardò intorno.
Ogni elemento la chiamava a gran voce, era parte del tutto, e si sentiva finalmente a casa.
Il vento le spettinava il pelo fulvo e le faceva un piacevole solletico.

Dentro casa Manolo si chinò, e prese in braccio i tre micini.
“Tornerà, non preoccupatevi”, disse accarezzandoli.
“La mamma tornerà”


(da uno spunto di L. Ballerini)

giovedì 16 febbraio 2012

Dolore

Oh no, il dolore. 
È tornato, infido e strisciante, e si è impadronito ancora della mia vita. 
Parlo del dolore fisico costante, quello che non ti fa urlare ma ti accantona in un angolo, rannicchiato, a piangere e desiderare di non esserci più. 
Quello che ti fa sentire solo al mondo, abbandonato da tutto e da te stesso.
 
Ti manca il respiro per giorni, e nella disperazione più cieca ti chiedi se tutto questo potrà mai passare, se tornerai mai a vivere.
Dicono che passerà; ma per ora è tornato, e non sono più io. 

L'ho temuto per mesi, e ora che ne sono nuovamente schiava riconosco quella trasfigurazione, quel senso di smarrimento totale e di annientamento irreversibile, e lo subisco passivamente. 
Guardo le gente vivere, e penso che non potrò più essere come loro. 

Il dolore è tornato, e ha inondato i miei sensi.
Sono cancellata. 

mercoledì 15 febbraio 2012

Vecchia signora

È finita la messa, il brusio si alza nella chiesa fino a diventare un vociare allegro. La domenica la gente ama fermarsi a chiacchierare.
Lei non si ferma, e con il bastone da un lato e dall’altro il braccio della ragazza-gote-rosse che l’accompagna, punta decisa verso il portone.
Procede lenta e sgangherata, e sembra impegnata in una faticosa battaglia.
Un impermeabile liso grida la sua presenza in quella calda mattina di giugno, e porta anche un foulard al collo. I sottili capelli sono legati stretti come a non volerli fare cadere.

Sono seduta su una panca vuota e osservo la gente, il viso appoggiato sulla mano.
Guardo con gli occhi di un’estranea gli amici, compagni della mia vita, e mi lascio invadere da un lieve senso di malinconia pensando a che sarà di noi quando saremo cresciuti.
Lei incrocia un istante il mio sguardo e chissà, forse ci legge qualcosa.
La vedo tirare il braccio della ragazza e voltarsi indietro.
Ci vogliono alcuni minuti prima che percorra tutta la navata e si fermi proprio di fronte a me.
È pelle e ossa, pare incurvata sotto il peso del cielo e ti domandi come faccia e rimanere in equilibrio. Sembra ancora più vecchia, ora che è così vicina.
Mi sorride con tenerezza: “Non essere triste, bambina. Ogni cosa andrà a posto, c’è il Signore che ci aiuta”
Ancora un sorriso e se ne va, lenta com’è arrivata.
La perdo di vista, confusa fra la gente.

Ogni cosa è andata a posto, e i miei amici sono ancora tali anche dopo tanti anni.
Ma lei, non l’ho più vista.
Amo pensare che quando il peso del cielo ha avuto la meglio su quella fragile ossatura, abbia sorriso ancora, al suo Signore.

martedì 14 febbraio 2012

Buon San Valentino


Buon san Valentino, amore.

Sei già uscito, e come ogni giorno sento il vuoto che lasci appena ti allontani, ma ti ritrovo nel profumo dolce che mi resta ancora per un po’ nell’anima, e mi tinge di luce.
Pensare di stare senza te è come guardare giù nel vuoto e sentire lo stomaco che si stringe terrorizzato, travolgendoti di vertigini.

No, non potrei stare senza quegli occhi sinceri che si accendono quando sei felice, quando ti basta uno sguardo per farmi capire che mi ami.
E a me basta uno sguardo per leggerti dentro fino al più piccolo pensiero.

Non ho bisogno di altro.
Mormori il mio nome accompagnato da quel debole sospiro. E poi sorridi, “volevo solo chiamarti”, dici divertito.
Voglio solo amarti, penso io con il cuore che si dilata.

Una tiepida carezza nella notte mentre ti stringi a me per verificare che sia ancora lì, e mi fai sentire appagata; ti stringo e sento che ti amo con tutta me stessa.
È così che si dice per far capire che si ama tanto, tantissimo, ma non rende l’idea.
Hai il cuore puro di chi non sa cosa sia il male, il sorriso disarmante di chi vive solo di sentimenti, e vorrei tu potessi restare così per sempre.
Hai riempito di gioia vera la mia vita da quel giorno di quattro anni fa in cui ti ho preso fra le braccia.

Buon san Valentino, bambino mio.

lunedì 13 febbraio 2012

Storni

Si dice che gli storni siano l'ombra delle mani delle fate. 
Secoli fa l'uomo e le fate convivevano in una sintonia quasi perfetta, le une facendo benefici per gli umani, gli altri nutrendo quelle piccole creature alate con la loro felicità. Sono migliaia di anni ormai che quell'equilibrio si è rotto, e non c'è più posto per loro nella nostra società. 
Nel profondo di qualche bosco ancora se ne può udire il canto lieve, ma le città sono interdette a creature tanto delicate, e la vita in questi grovigli di cemento non è più benedetta dal loro sguardo benevolo.
Ma si dice che loro, le fate, non abbiano perso la speranza di ritornare a quell'unione lontana, e così pare abbiano istruito delle creature speciali per poterci mandare messaggi e parlare con noi. 
Solo chi ha l'animo puro può intendere quel linguaggio arcaico, e questa è la storia di un miracolo a cui ho assistito personalmente e che non posso spiegare altrimenti. 

Erano anni che Lorenzo sedeva a quella finestra. 
Ricordo bene quando nacque. La madre lo teneva tutto avvolto in una coperta pesante, e tornava a casa con lo sguardo raggiante che ogni neo mamma conosce. La gravidanza aveva trasformato quella ragazza esile e delicata in una creatura luminosa, e la maternità aveva se possibile completato l'opera. 

I giorni passavano lenti, diventarono settimane, e ancora nessuno era stato  accolto nell'appartamento del piano nobile per visitare il neonato. Strana cosa per una famiglia così nota in città: c'era sicuramente qualcosa di strano dietro, ma dalla mia finestra li vedevo danzare in un abbraccio d'amore, mamma e figlio, alle note di una ninna nanna sconosciuta mormorata a fior di labbra. E di strano non vedevo più nulla.
Solo dopo tempo si seppe che il piccolo Lorenzo aveva un difetto congenito, e che non avrebbe mai camminato. 
Passarono gli anni, e Lorenzo viveva seduto sulla sua sedia a rotelle. Lei aveva accantonato la sua vita per stare vicina al figlio, e credo che fossero felici. 
Finchè un giorno il sorriso di Lorenzo si fece triste, e tutti capirono che era cresciuto: la ragazza che amava stava passeggiando con un compagno sotto la sua finestra, cosa che lui non avrebbe mai potuto fare.
La madre si struggeva di dolore per quel figlio infelice, e nulla sembrava alleggerire il peso che portavano.
Proprio quell'anno arrivarono a frotte. 
Erano migliaia di elementi, forse diecimila, forse centomila, chi può dirlo. 
Arrivavano all'ora del tè e oscuravano il cielo. Non un grido, non un rumore, solo il fruscio delle ali frenetiche che scivolavano nel vento. Se ne andavano chissà dove dopo averci incantato con le loro danze, e sparivano dalla città fino all'indomani, alla stessa ora. 
Si allargavano come un nastro di raso che si scioglie da un fiocco, e poi tutti insieme svoltavano verso il centro, raggruppandosi in un cerchio compatto. L'istante dopo il cerchio era svanito, e ti ritrovavi a guardare ammutolito un'onda armoniosa che saliva spiraleggiando, salvo poi disperdersi in piccoli gruppi separati, con vita a sè. 
La città si fermava incantata, tutti col naso all'insù, e dalla mia finestra vedevo Lorenzo e la madre guardarli a bocca aperta, rapiti. 
Era come se li capissero! 
Era come se parlassero con loro: Lorenzo abbassava il capo e loro si precipitavano in picchiata, la mamma muoveva i capelli e loro si disperdevano come la sua chioma dorata nel vento. 
Si fermarono diversi giorni, e misteriosamente al tramonto svanivano nel nulla fino alla sera successiva. 

E una sera accadde. 
Lo stormo arrivò puntuale, e Lorenzo posò il libro che stava leggendo. 
Fu una cosa inspiegabile. 
Mille e mille uccelli tutti uguali turbinarono nel centro del nostro cortile, e poi salirono verso il cielo, lenti e silenziosi, per poi accelerare e vorticare, e girare ancora, e in un attimo disperdersi. 
Se ne erano andati.
Lo avevamo capito tutti. 
Lorenzo era in piedi alla finestra, senza appoggio alcuno, e tendeva le braccia al cielo, in un saluto muto. 
Era in piedi Lorenzo, e il suo sorriso era finalmente felice. 
Lo vidi abbracciare la madre in lacrime e rimanere così per un tempo interminabile. 
Poi, per mano, si incamminarono verso la vita.
 
Si dice che gli storni siano l'ombra delle mani delle fate, che tessono in cielo le parole arcane di un linguaggio perduto. 
Solo ai puri di cuore è dato leggerle, e costruire la propria felicità da quelle parole evanescenti...

venerdì 10 febbraio 2012

La sposa bambina

Me ne rendo conto soltanto oggi, giorno in cui la mia vita è cambiata: le spiegazioni abbozzate che mi davano da bambina s’incastrano perfettamente con questo nuovo quadro che mi fa venire le vertigini.
Ho perso le radici di me stessa, e non so più chi sono.
Ma andiamo per ordine.

Erano giovani e avevano una splendida bambina. Bella lo era davvero, con gli occhi grandi del colore del mare, e vivevano in un piccolo paese dell’entroterra.
Come in ogni favola che si rispetti la mamma morì giovanissima, e lasciò la bambina in tenera età ad un marito pronto a risposarsi.
La matrigna seguì alla perfezione il copione, e non appena l’età della bambina glielo consentì, spinse il debole marito a darla in moglie. Erano tempi in cui non si chiedeva permesso ai figli per combinare le unioni, e un buon partito non poteva essere rifiutato.
Per lo meno non fu il convento.
Fu spinta fra le braccia di don Carlo, ricco agricoltore di mezza età, a dodici anni suonati: era mia nonna Anita.
Forse qualcosa di strano doveva esserci in quel ricco signore, se non aveva mai contratto matrimonio fino allora e viveva isolato con le sue mandrie in un paesino di montagna, ma era inutile porsi domande, e così fu ipotecata la felicità di Anita.
Dopo la cerimonia, la sposa-bambina si presentò alla porta della sua nuova casa con un baule di vestiti, le bionde trecce nascoste sotto la cuffia, ed una bambola di pezza a cui sembrava volersi aggrappare in cerca di aiuto.
Chissà se don Carlo sorrise di tenerezza nel fare entrare la moglie in casa? Quello che è certo è che si comportò da gentiluomo, e attese senza fretta che la natura facesse il suo corso e rendesse quella bambina una donna.
Anita, sollevata dai suoi doveri coniugali, passava le giornate cantando canzoncine e giocando con la bambola da cui non si separava mai. Gliel’aveva cucita la madre, ed era tutto ciò che le restava di un’infanzia perduta da tempo. La governante l’aveva presa a ben volere, e si intratteneva con lei raccontandole fiabe come se fosse una delle sue nipoti.

Passarono gli anni, e Anita sbocciava come un fiore rarissimo. Il marito l’adorava per quanto era in grado di fare, perché nel suo cuore ruvido non era capace di provare più di una profonda devozione.
Capitò un giorno per caso un famoso pellaio nel paese vicino, e don Carlo volle incontrarlo per vendergli le sue pelli ed estendere gli interessi in quel settore.
E così Mastro Giacomo, distinto signore dall’aria ironica, fu accompagnato alla tenuta e invitato a fermarsi per il pranzo.
Un ospite era cosa rara, e Anita si presentò così bella che sembrava risplendere di luce. Bastò uno sguardo perché fra i due si accendesse la passione: lei era del tutto nuova a certe sensazioni, e Giacomo non aveva mai visto tanta bellezza e raffinatezza in una donna.
Non c’è bisogno di dire che Mastro Giacomo e don Carlo iniziarono una collaborazione fruttuosa, e le visite del pellaio in quella casa erano sempre più frequenti.
Finché un giorno non si presentò più: si era portato via il bene più prezioso di quella casa, e non aveva altri motivi per tornare.
Anita aveva preparato un piccolo fagotto in cui aveva avvolto poche cose, e in una notte di luna piena era sgattaiolata via senza voltarsi indietro.
Camminò alla luce della luna in quelle montagne sconosciute per ore, attraversando ruscelli e scavalcando roveti, scivolando lungo ripide scarpate e arrampicandosi su pendii impervi.
Il cuore le batteva veloce e rimbombava tanto da farle male, ma proseguì caparbia fino alla lontana città.
Divenne così “la pellara”, la moglie del pellaio, in quella città della sua rinascita.
Nessuno l’aveva mai vista sorridere, e non aveva mai dato confidenza ad anima viva, ma nonostante ciò lasciava gli uomini girarsi ammirati al suo passaggio.
A pensarci bene oggi, anche io ho visto ben poche volte i suoi occhi impenetrabili velarsi di risa.
Forse era felice solo con il suo Giacomo, da cui ebbe sempre tutto ciò che desiderava.
Compresi i quattro figli che nulla sapevano di don Carlo.
Ne portavano ignari il nome, quello stesso che credevo fosse il mio fino ad oggi, ma che non è altro che un ricordo grottesco della colpa di nonna Anita.

Accomunati dalla stessa discendenza, vedo me e i miei parenti come figli del vento, e mi sembra di aver vissuto in una menzogna: il primo dei miei antenati è uno sconosciuto senza nome, e io mi sento perduta in questa mancanza di origini.
In un vortice di pensieri che mi sferzano come pietre, capisco di non essere più chi credevo, e che le mie vere radici seguono un sentiero diverso da quello che ho sempre conosciuto.
E che dire di quegli sventurati che non poterono compiere il loro destino di uomini? dare dei figli alla propria moglie, l’uno, e il giusto nome ai propri figli, l’altro.
Ma quella felicità tardiva ebbe un caro prezzo anche per lei.
E non fu l’ombra dell’adulterio, di cui solo in pochi sapevano, né la colpa dell’abbandono.
Ma la bambola di pezza, a cui dovette dire addio in una lontana notte di luna piena.

P.S.
Questa è una storia vera.
Ringrazio la protagonista per averla condivisa con me

giovedì 9 febbraio 2012

Sulla porta

Ha un compito importante da svolgere, per questo è così austera. Senza di lei non si potrebbe procedere, orologio alla mano, sguardo incorruttibile.
Controlla l'andirivieni dal suo metro e quaranta di altezza, che termina con una massa di capelli corti dall'aspetto lieve, qua e là ombrati di grigio.
Come ogni mattina il viso è serio, ma quel naso rotondo le dà suo malgrado un aspetto buffo. Diresti che somiglia ad una lontana zia, quella più bruttina in verità ma a cui vogliono tutti bene.
Saluta con un cenno del capo senza abbozzare sorrisi, il dito è vicino all'interruttore così non rischia ritardi.
È arrivata l'ora, non ci sono scuse, e preme forte sul tasto alla parete.
La campanella squilla stridula.
Tutti fuori i genitori, l'ora di ingresso è terminata.
Si alza decisa col blocchetto consumato e la matita, e inizia il giro delle classi a contare i bambini presenti per dirlo alla mensa.
E la sera, a volte, sogna di fare il vigile urbano.

mercoledì 8 febbraio 2012

Piccolo uomo

Era un piccolo uomo.
Arrivava a mala pena al metro e settanta, ma non soltanto in quel senso mi sembrava piccolo.
Non aveva viaggiato né studiato, e a malapena parlava l’italiano, convinto com’era che il dialetto fosse tutto ciò che serviva per comunicare.
Mio padre era così.
Così semplice e privo di cultura che in diverse occasioni me ne sono vergognato.
Credevo di volergli bene: era mio padre, e gli ero affezionato. In fondo mi aveva fatto studiare, e grazie a questo ero diventato molto migliore di lui.

In quei tempi vestivo soltanto abiti firmati, con sciarpe di seta e scarpe di grande pregio, e quando mi capitava di incrociarlo nell’androne, al ritorno dai suoi lavori nei campi, infangato e piegato dall’artrosi, indugiavo dietro la colonna per non farmi vedere.
Passavo a salutarlo a casa tutti i giorni, fermandomi a chiacchierare con mia madre, ma non riuscivo a restare più di cinque minuti in quell’appartamento spoglio e dall’odore di aglio e vino fermentato. Loro erano contenti delle mie visite: sono un dottore di successo, ed erano visibilmente orgogliosi di avermi come figlio.

Non altrettanto valeva per me, e mi infastidiva il modo in cui si prendeva gioco della vita, il suo orgoglio per me come se fosse tutto merito suo, e che i suoi unici argomenti fossero concimazioni e potature.

Un pomeriggio come tanti mia madre mi chiamò allarmata: papà non stava bene, farfugliava e non muoveva la gamba e il braccio sinistro. Corsi a casa e lo trovai molesto e agitato. Parlava solo con metà bocca, chiaro segno di ictus, e niente di ciò che diceva aveva senso.
In ospedale confermarono la mia diagnosi, e lo trattennero in geriatria.
Mi vergognavo per l’odore che emanava e per l’aspetto trasandato che aveva, e mi scocciava che i miei colleghi lo associassero a me.
Dopo tre giorni, tra lievi miglioramenti e nuovi peggioramenti, il medico di turno mi chiamò a notte fonda. Mio padre non c’era più.
Uscii nel gelo e mi precipitai in reparto.
Lui era a letto e sembrava dormire. Lo avevano lavato ed emanava un piacevole odore di sapone.
Mi avvicinai e ascoltai le mie emozioni.
Nulla.
Il silenzio dell’ospedale era penetrato anche nel mio spirito, e non sentivo altro che i battiti regolari del mio cuore serrato.
Mi sedetti accanto a lui e chiusi gli occhi per lasciarmi invadere dalle sensazioni.
Ma non successe nulla.
Gli feci una carezza e decisi di tornare a casa: non c’era alcun motivo di restare, e l’indomani sarebbe stato un giorno faticoso.
Mi misi a letto con lo sguardo vuoto, e chiusi gli occhi.
Lui era lì, e stava dormendo.

Aprii subito gli occhi e mi guardai intorno. Ogni cosa era al suo posto, ero nella mia camera e andava tutto bene.
Chiusi di nuovo gli occhi, e lui era ancora lì. Mi soffermai su quell’immagine. 
Era notte fonda, e mi aspettava nella macchina spenta nel parcheggio della stazione.
Il treno aveva fatto un ritardo di ore per via di un traliccio caduto per la neve, e non esistevano ancora i telefonini per avvertire. Mio padre sapeva che sarei tornato dall’università ed era venuto in stazione per non farmi prendere freddo sotto la neve. Il ritardo non lo aveva scoraggiato, e con i piedi sul volante aveva tirato giù il sedile per appisolarsi un po’.
Quando finalmente arrivai, lui mi sorrise pieno d’amore, e io mi allontanai dai miei compagni per salire in macchina. C’era solo lui nel parcheggio a quell’ora tarda.
“Non vedi come sono sporche le tue scarpe…” avevo sibilato sperando che nessun altro le avesse notate.

Mi svegliai col fiatone e il cuore oppresso. Tutto andava bene, era solo un sogno. O forse era un ricordo? Nella notte i confini fra realtà e fantasia si sovrappongono con estrema facilità.
Mi soffermai a pensare, e un secondo ricordo si fece largo fra le nebbiolina del sonno che indolenziva le mie reazioni. 
Una mattina ero tornato a casa con della frutta trafugata in un campo, e mi aveva chiesto come avessi fatto a pagarla. Mi aveva poi accompagnato a restituirla, per mano, a testa alta. 
Non si era vergognato di me, lui.
Non si è mai vergognato di me, nemmeno quando l’ho lasciato solo, in un ospedale silenzioso, in una fredda notte di febbraio.

Solo in quel momento realizzai che non l’avevo mai sentito lamentarsi, ma che aveva passato la vita a guardarmi sorridendo, compiaciuto di quello che ero. Credevo di avergli voluto bene, ma mi sbagliavo: lo amavo da sempre, e me ne accorgevo soltanto in quel momento.

Corsi di nuovo in ospedale.
Dormiva sereno nel suo sonno eterno, e finalmente lo abbracciai. 
Sdraiato accanto a quel piccolo uomo ho pianto per lui e per me, per il tempo che avevo perso, per l’amore che avevo ritrovato.

martedì 7 febbraio 2012

Nessuno è solo

Con i piedi ciondoloni Serena guardó giù. Quello stupido fiocco delle sue ballerine si stagliava in modo grottesco sulla desolazione dei binari arrugginiti.
"Che spreco, una giornata così bella" pensò con malinconia mentre il filo della tensione ronzava sotto di lei. 
Silenzio nell'aria e nell'animo. 
Sapeva che i suoi genitori non avrebbero mai perdonato una tale stupidaggine, ma per la prima volta nella sua vita voleva decidere da sola. 
Stupidaggine... Le sembrava di sentire sentenziare sua madre, col tono di onniscienza tipico di chi parla dal lato del giusto. 
Lei aveva sempre ragione. 
Lei aveva il Signore dalla sua, e questo la rendeva infallibile. Giudice rigido e spietato della vita altrui, non avendo forse materiale per vivere la sua...
Ma si, doveva essere così poveretta. Sposata con quell'uomo tanto taciturno e tanto onesto, scelto con il "buon senso" perché così timorato e dedito alla famiglia. Ma l'amore? La passione? 
Con la passione non si costruisce una famiglia stabile e onesta,
diceva sempre con il suo tono spento. 
Onesto, onesto! Sembrava che tutto si basasse solo sull'onestà. 
Serena sorrise con mezza bocca, acida. Come se ci fosse solo quello nella vita.  Lei l'aveva conosciuta, la passione, e si era sentita viva e felice. 
Lui le aveva sciolto la coda di cavallo con cui legava sempre quegli insipidi capelli neri e le aveva detto che era bellissima. 
Si era sentita grande, come le sue compagne che avevano sempre nuovi racconti da bisbigliarsi ogni lunedì mattina in classe, e si era abbandonata a quella nuova sensazione. 
Con la fiducia cieca di un cucciolo aveva bevuto ogni frase di lui come se fosse acqua di sorgente, e dopo averlo seguito senza indugio nella nuova strada in cui la stava portando si era fermata a sognare: lui la amava e l'avrebbe senz'altro sposata, non poteva essere altrimenti con tutto quello che le aveva detto. 
Sua madre avrebbe finalmente capito che cosa è il vero amore e avrebbe abbassato la testa di fronte a ciò, richiudendosi in un umile silenzio. 
Una lacrima scivoló fino alla sciarpa rosa, e si impigliò nelle sue fitte maglie create ad arte dall'esperto uncinetto di sua madre. 
Curiosamente un'ombra oscurò il giorno. 
Serena alzò lo sguardo sul cielo luminoso che precede il tramonto e li vide. 
Erano centinaia, migliaia, e danzavano maestosamente snodandosi nelle forme più strane. Un gruppo si allontanava formando una sfera autonoma, poi in un istante non potevi più distinguerlo dagli altri a cui si era riunito, formando una cosa sola, un unico corpo. 
Serena li guardava rapita dall'incanto. Come li aveva chiamati il suo professore? Storni, ecco, nell'ultima danza del saluto, pronti a partire. 
"Parto anch'io" pensó ironica, tornando a guardare i binari. 
Un altro stormo, ecco si staccano dal gruppo, corrono verso il basso accelerando, poi rimbalzano in su, come urtando contro un invisibile pavimento. E poi svaniscono, mescolati agli altri. 
Era svanito anche lui lasciandole un pesante fardello che si nutriva di lei, inconfessato e doloroso, lasciandola sgomenta e terrorizzata. Non avrebbe mai potuto raccontare ai suoi, non avrebbero mai capito nè  perdonato.  
Un cordone, una freccia che scivola nel blu. Aspetta, quello sembra un cuore! Forse è un segnale, forse vogliono dirmi qualcosa, forse parlano proprio a me. Nessuno è solo sembrano dire, si può volare, si può scappare, ma poi si torna uniti in un gioco senza fine. 
"Non solo sola" mormorò, e per la prima volta si guardò il ventre con tenerezza. 
"Non posso farlo, che pazzia!" e fu come un'illuminazione. 
Serena guardò ancora quello spettacolo inatteso che lentamente danzava in cielo e sorrise di gratitudine. 

Gli storni sembrarono concentrarsi in un volo folle verso di lei; poi spinti come da un comando misterioso cambiarono direzione all'unisono, volando silenziosi verso nuovi paesi.

domenica 5 febbraio 2012

Neve


Il cielo è così basso che sembra voler scendere su di te.
Vuole affondare le sue nubi gonfie nel terreno, noncurante di ciò che si trova in mezzo.
È tutto il giorno che si prepara, e vivo in attesa che qualcosa succeda.
Finalmente rompe ogni indugio: si sta sbriciolando come se fosse cenere leggera, e lascia una farina finissima ad imbiancare le strade.
Fa molto freddo, il cielo è argenteo, la neve è minuscola e non soddisfa la mia voglia di fiocchi.
Chiudo le persiane un po’ delusa, su questa notte rigida e buia.

È sbadigliando che le spalanco all’alba del nuovo giorno.
Avevo dimenticato, non avevo preso sul serio quella sottile nevicata, e ora lei è qui che mi stupisce.
Non riesco a smette di guardarla, la bocca aperta, e lei è là. Ha preso il comando di ogni cosa.
Copre tutto, cancella i colori, uniforma i profili.
Il mondo è immobile, imprigionato dal suo abbraccio totale. È un’amante disperata che si dà completamente, e ti ingloba senza scampo nel suo amore morboso.
Soffoca ogni movimento, arrotonda il suono e rende morbido il mondo.
Il cielo è bianco come la terra, e con un guizzo allo stomaco spero che tutto questo non finisca mai.
Voglio solo esserne parte anch’io. È ancora come da bambina, o forse molto più intenso…
Il cuore si allarga per una felicità improvvisa, e l’eccitazione mi fa fremere dal desiderio di uscire.
Corri, esci, vola!
Voglio buttarmi per terra a braccia aperte, mangiare i fiocchi ancora in volo e sentire il tipico croccare ad ogni passo. Voglio rotolarmi tante volte, urlare al cielo per quel suono sordo che mi viene restituito, saltare e tuffarmi come in mare, sprofondando completamente nel suo abbraccio.
La amo, l’adoro, è la mia passione, la mia follia!

È il terzo giorno. Il cielo è azzurro e il sole sembra ancora più brillante di sempre.
Rendi luminoso quel che è opaco, candido quel che è sporco, rendi elegante la mia città di cemento, amica mia.
Se potesse essere sempre così, anche questo posto sembrerebbe incantevole.
Ma gli alberi, insofferenti, cominciano a sbuffare, e con tonfi soffocati si liberano della tua morsa. Le auto ti hanno schiacciata, svilita e sporcata, e l’asfalto scuro affiora e si allarga cancellandoti, animandosi di passerotti in cerca di briciole nelle vie più appartate.
Il sole ti fa brillare sui tetti, e schiava di lui ti abbandoni a questo bacio mortale.
Tu cedi, e di te non resta che uno sgocciolare nei tombini irrorati, il cif-ciaf di una poltiglia grigiastra e tristi pupazzi ormai privi di forma.

Un giorno ancora, e il mondo torna asciutto.
Cancella ogni candore e prosegue il suo corso, e sembra impossibile che solo ieri fosse tutto così bello.
Si asciuga anche il mio cuore, e il ricordo di quella corsa a perdifiato ridendo verso il cielo mi strappa un debole sorriso.



(Versione per papà: ha nevicato, mi piace molto e mi dispiace quando si scioglie! Hihihi!)

venerdì 3 febbraio 2012

I giorni della merla


Non era una merla come tante quella di cui parleremo oggi.
Era infatti una giovane e pasciuta merla bianca, come tante a guardarla dal di fuori, ma vispa e intelligente come poche.
Era completamente bianca, perché tanto tempo fa i merli erano candidi proprio come neve.
Ma anche Gennaio non era un mese come gli altri: era burbero e vendicativo, e nei suoi ventotto giorni si divertiva a gelare i paesi del nord per il semplice gusto di guardare persone e animali in difficoltà.
Come se la rideva ad ogni scivolone di una vecchietta sul ghiaccio, e quando una massa di neve gelata si staccava da un ramo e cadeva sulla testa di chicchessia, era per lui uno spasso inenarrabile.
A dispetto della sua grande ferocia, per lo meno era un mese breve, e ci si consolava pensando che Febbraio sarebbe stato più clemente, portando con sé le prime gemme.

Un anno come tutti gli altri, di cui ormai si è persa memoria, la nostra astuta merla aveva deposto delle uova, e dopo una piacevole covata i piccoli nacquero proprio la sera di Natale.
Ma subito l’ombra di Gennaio affiorò alla sua mente, e la giovane mamma pensò ad una soluzione per proteggere i pulcini dal freddo e dalla carestia. Sapeva per istinto che non sarebbero sopravvissuti a tanti giorni di freddo, e se lei fosse rimasta accanto a loro per riscaldarli non sarebbero sopravvissuti alla fame.
Aveva ancora una settimana prima che arrivasse il mese più freddo dell’anno, e con buona lena si mise d’impegno a cercare quante più provviste possibili per poter trascorrere l’intero mese nel suo nido, con i piccoli.
E arrivò Gennaio anche quell’anno, carico di energia e furia devastatrice.
Mandò piogge e forti grandinate, soffiò bufere e creò terribili mareggiate, tempeste e fulmini squarciavano i cieli, e dopo aver vessato il mondo per diversi giorni, coprì tutto con un fitto manto di neve che fece ghiacciare subito dopo, ridendo e spassandosela in quantità.
Mentre fuori il finimondo impazzava, la merla aspettava paziente nel suo nido; i piccoli crescevano e diventavano più forti, e il cibo raccolto li sfamava tutti senza dover essere parsimoniosi.
Finché finalmente quei terribili ventotto giorni passarono, e Gennaio era arrivato proprio agli sgoccioli.
Febbraio dapprima sarebbe stato rigido, ma poi avrebbe concesso un po’ di tregua, regalando qualche bella giornata per rinfrancare gli umori e permettere agli animali di cercare nuovo cibo.
La merla aveva superato il mese più freddo dell’anno senza problemi per sé e per alcuno dei suoi piccoli, e si sentiva orgogliosa e intelligentissima. Ma una vittoria che vittoria è, se non si può sbeffeggiare il proprio nemico?
Cosi uscì dal nido, la merla imprudente, e chiamò a gran voce con tono esultante: “Gennaio, o stolto e infido mese, vieni da me e fatti vedere prima di scomparire!”
Gennaio sgranò gli occhi e si precipitò a vedere chi mai avesse parlato: chi osava dargli dello stolto? Chi si permetteva di apostrofarlo il tale maniera?
Tuonò minaccioso, ma la piccola merla era appollaiata su un ramo spoglio, e rideva di lui confondendosi fra la neve.
“Caro Gennaio, quest’anno non me l’hai fatta! Nemmeno una goccia di pioggia ha bagnato queste piume, e neanche un fiocco di neve ha raffreddato queste zampe!”
Gennaio era furente, tuonò e rimbombò ancora… ma era ormai tempo di passare le consegne a Febbraio.
“Febbraio, collega, amico mio” disse con il tono più cortese che gli riuscì. “Ho ricevuto un insulto intollerabile questa mattina, e sono qui a implorarti di aiutarmi a vendicarlo”
Febbraio, stupito dalla disperazione nel tono del suo crudele collega, fu pronto e disponibile ad aiutarlo come l’amico desiderava.
“Ti chiedo tre giorni, tre giorni soli caro amico, così da vendicare l’offesa subita. Che il mondo si ricordi per sempre quanto è terribile l’ira di Gennaio”
Febbraio ne aveva trentuno di giorni, e acconsentì a regalargliene tre.
E così Gennaio tornò dalla giovane e impudente merla, che stava ancora sorridendo, e si avvicinò rotolando minaccioso, pieno di fulmini e saette.
Il sorriso le morì subito dal becco non appena il primo lampo colpì il ramo su cui era posata, e per non finire fulminata fu costretta a scappare più veloce che poté, stando ben attenta a non avvicinarsi al nido per non mettere a repentaglio la vita dei suoi pulcini.
Gennaio era furente, e usò ogni sua conoscenza per aprire le cataratte del cielo e far scendere sulla terra ogni possibile flagello meteorologico.
Gettò neve a manciate, grandine per compattare la neve, vento per spazzare via ogni cosa e fulmini per terrorizzare.
Il freddo era tale che ogni goccia d’acqua si congelò, e i pesci restarono imprigionati nei loro laghi senza potersi muovere, e ovunque echeggiavano pianti e lamenti.
Ma Gennaio non era ancora soddisfatto.
La sua vittima infelice era ballonzolata a destra e a sinistra, e quando provava a scappare, una folata di vento la riportava indietro. Tremava di freddo e di paura la poverina, le ali erano ormai così indolenzite da non reggersi più in volo, e rimpiangeva la sua sfacciataggine e la sicurezza del suo nido.
Ma, sbattuta un po’ ovunque come una trottola impazzita, si accorse di essere finita sul tetto di una casetta, e dal comignolo usciva timido un bel fumo caldo.
In un istante si infilò nel comignolo, e disperata si fermò ad aspettare che la furia cessasse.
Passò ancora un giorno, e poi ancora un altro, ma Gennaio non si placava: l’astuta merla era al sicuro ormai, e gliel’aveva fatta ancora. Non c’erano più giorni per vessarla ulteriormente, e la sconfitta gli bruciava come un carbone ardente.
Così arrivò Febbraio, e la giovane merla uscì guardinga dal suo rifugio d’emergenza.
Era tutta intera, e volò rapida al suo nido per abbracciare i suoi pulcini. Ma dall’alto del cielo, proprio mentre se ne stava andando, Gennaio vedendola scoppiò in una grossa risata: la merla, sporca di fuliggine, era diventata scura come la notte, e anche i suoi pulcini, dopo il suo abbraccio, si tinsero di fumo. E così restarono, per sempre, per un incantesimo voluto da quel mese iroso.

Che questo accadde veramente, tanti tanti anni or sono, ce lo assicura la leggenda.
È proprio da allora che i merli sono diventati neri, come vendetta di Gennaio alla provocazione di una di loro.
E nonostante da allora esso duri trentun giorni, non è mai più riuscito a piegare la giovane ed astuta merla, nemmeno nei suoi ultimi, terribili tre giorni, che da allora prendono il nome de “i giorni della merla”.