martedì 4 dicembre 2012

Natale da sola


Sarò sola questo Natale.
I ragazzi sono in montagna con gli amici, e i miei hanno deciso di festeggiare il loro anniversario in crociera.
Quarantacinque anni! sembra incredibile poter passare tanto tempo insieme a qualcuno.
Resterò da sola dunque, e fammi pensare un momento, forse sarà per la prima volta da che mi ricordo.
Eh sì, perché quegli anni in cui mi lamentavo di essere sola, in realtà c’erano i gemelli con me, e anche se era un po’ pesante, sola non lo sono mai stata…

C’è stato l’anno zero, come lo chiamiamo noi, quello in cui un biglietto proibito letto dalla persona sbagliata (io!) al momento sbagliato (la vigilia di Natale) ha sancito la fine del mio matrimonio. I bambini si sono stretti a me e, per reazione, da allora i nostri Natali sono stati uno più bello dell’altro. Ogni anno ci superavamo in decorazioni e festoni, e la nostra casa era diventata meta di pellegrinaggio per amici e parenti.
Oltre alla bellezza delle luci, alle dimensioni dell’abete, agli addobbi sparsi per casa tanto da sentirti catapultata nella baita di Babbo Natale, c’erano sempre biscotti alla cannella, tazze di cioccolata calda e il pandoro fatto in casa, che impregnava l’aria di vaniglia e zucchero.
Il giorno di Natale, poi superavo me stessa.
Era un po’ come se volessimo cancellare il ricordo di quel tradimento soffocandolo con l’atmosfera della perfezione.

E di Natale in Natale sono invecchiata, accidenti. Me ne accorgo guardando i miei figli, perché per il resto mi sento la stessa.
La stessa di diciotto anni fa, quando li ho abbracciati per la prima volta. Non mi sembra nemmeno che sia passato tutto questo tempo…

Sono qui incantata davanti alle candele, e non sono riuscita proprio a finire la cena della vigilia. Sparecchierò domani.
E’ la prima volta che la trascorro da sola, abbiate pazienza.
“Sei proprio sicura, mamma?” mi hanno chiesto con garbo prima di prenotare, preoccupandosi di lasciarmi senza darmi un dispiacere.
Cosa rispondere?
Mi sarei buttata al collo implorando loro di non lasciarmi mai, avrei piagnucolato in modo pietoso che senza di loro non sarebbe mai arrivato il vero Natale, ma ho annuito decisa, sorridendo per conferma. 
Andate, figli miei.

Come quando li incoraggiavo da piccini a buttarsi nella mischia: quante volte ho dovuto spingere per farli andare, quanti sorrisi di incoraggiamento ho speso per renderli sicuri, per farli camminare con le loro gambe, per far sì che si allontanassero dal nido per la loro strada.
Loro si giravano a guardarmi, aspettando un cenno da parte mia, e io annuivo sollevando le sopracciglia, come a dire “Allora? Che aspetti?”. Solo allora si decidevano.
E ora che si sono allontanati, ora che camminano decisi, ora che sono due splendidi giovani con il futuro nelle loro mani asciutte e forti, io resto a guardarli.
Li osservo dalla mia seggiola traballante, al principio della via, mentre loro si immettono sereni nella corsia della loro vita.

La stanza brilla di luci colorate, i canti di Natale come sottofondo, le candele indugiano in quest’atmosfera di festa. Mi accomodo sul divano e mi godo gli addobbi.
A quest'ora Babbo Natale prepara le sue renne per iniziare il giro del mondo…
Verso dello spumante ghiacciato nel mio calice e lo sollevo per brindare, guardando le bollicine che salgono in superficie partendo da un punto misterioso attaccato al vetro. Dopo un sorso leggero, socchiudo gli occhi e lo assaporo.
Sotto il mio albero maestoso, due pacchetti incartati aspettano di essere aperti. Loro torneranno fra qualche giorno, saranno contenti dei loro regali.

Quel lieve tuo candor, neve, discende lieto nel mio cuor…” Abbandono la testa sul divano, e scivolo velocemente nel sonno.

                                                                      -----

Din… din… din…
Mi sveglio di soprassalto. E’ già mattina, ho dormito proprio come un sasso! Dove sono? Ah, sì, mi ero addormentata sul divano con la copertina… aspetta un attimo, non avevo la copertina.
Devo essermela messa questa notte senza ricordarmene. Che strano.
Ancora quel tintinnio! Ma che succede?
Oh mamma! E’ passato per davvero Babbo Natale? Sotto l’albero ci saranno almeno dieci pacchetti infiocchettati, e la tavola è apparecchiata per la colazione delle grandi occasioni!
Non credo ai miei, occhi, non oso illudermi…
                                  “Buon Natale, mamma!”
Due cappelli rossi bordati di bianco, un campanellino leggero, tre tazze di cioccolata fumante.
Due ragazzi -i miei bambini, due uomini!- sorridenti.

I veri amori della vita.


Con questo racconto partecipo al concorso "Christmas Gift", di My Caffè Letterario e Locanda dei Libri





mercoledì 28 novembre 2012

Ti ho cercato


Ti ho cercato tanto.
Ti ho cercato come presenza, aspettandomi quasi di sentirti accanto, stupita di non avere quel sesto senso che ti fa sapere quando ancora non sai.
Ti ho cercato in una chiesa, fra l’odore delle candele e l’asprezza dell’incenso.
Ti ho cercato sotto questa pioggia incessante, così simile ai miei sentimenti, che batte il mare e lo schiaffeggia inutilmente, inghiottita poi fra le sue onde schiumose.
Ti ho cercato prendendoti per mano, quella mano fredda e senza quasi consistenza, che sembra cera per quanto è liscia.
Ti ho cercata, ma non c’eri.

Non c’eri più.

Poi il mio sguardo desolato si è fermato sulla foto che tenevi sul comò, e sul quadro con i fiori bianchi che hai appeso accanto al letto.
Ho guardato il copriletto rosa antico e le tue sedie del matrimonio, che ti hanno seguita in ogni trasloco, quasi sgangherate nella loro antica eleganza.
E ho guardato l’armadio, scrigno misterioso che era il tuo mondo, che aprivi soltanto per fare qualche regalo, dal tuo portafogli consumato, come una cosa segreta, personale, inviolabile, con un pacchetto di caramelle sempre nascosto dentro.

E ti ho trovata finalmente.
Tu eri a due passi da me, nella scatola dei foulard, fra le calze di lana ben piegate nel cassetto, fra le lenzuola del corredo coperte per non prendere troppa polvere.
Eri accanto alla foto del tuo Filippo, nel vasetto con due rigidi fiori finti, nel centrino di pizzo che avevi ricamato da ragazza.
C’era la tua presenza fra le foto dei nipoti attaccate alle pareti, fra quelle incorniciate nell’argento, e guardandole le vedevo con i tuoi occhi; parlavano di te e della tua vita, della solitudine e della famiglia lontana.

Ti ho trovata infine nel tuo cofanetto dei gioielli, svuotato da tempo ormai, che conteneva la foto di un amico scomparso, un santino a cui votarti, e un piccolo libricino.
Te l’avevo regalato un secolo fa, o forse più, ti aveva riempito di gioia oltre qualsiasi aspettativa.
Quello piccino come un mignolo, quello dal titolo “Cara nonna”, quello che riposa con te ora, fra le tue mani di cera.

venerdì 22 giugno 2012

Il trovatello

Maria stava camminando lungo una strada nuova. Aveva appuntamento con l’agente immobiliare e si guardava intorno piena di interesse.
Le piaceva quel quartiere pieno di alberi e verde, e le persone che ci vivevano sembravano gentili e amichevoli.
Da qualche giorno avevano deciso di cambiare vita, e il primo passo era senz’altro il cambio della casa, del quartiere, delle abitudini quotidiane.
L’appartamento era carino, e dopo le solite formalità con l’agente immobiliare Maria decise di prendersi una pausa al caffè all’angolo.
Un modo in più per conoscere la zona.
Il locale era in penombra, ed era un posto più stile pub inglese che il solito bar italiano, ma non così pesante nell’arredamento.
Essenziale e pulito, questa era la principale impressione.
Maria si era seduta su uno sgabello al bancone, e aveva ordinato un caffè decaffeinato e un bicchier d’acqua. Ci versò dentro delle gocce -non ricordava nemmeno più per cosa gliele avessero prescritte- e bevve, vagando con lo sguardo sereno e tranquillo.

Un bimbetto le si avvicinò pieno di entusiasmo.
“Mamma!” aveva esclamato, e le aveva abbracciato la gamba. Era sicura che si fosse confuso con qualcun’altra, ma era l’unica donna nel locale.
Il bambino avrà avuto si e no tre anni, era parecchio sporco, e in effetti aveva proprio l’aria di essersi perduto.

Leggermente a disagio, Maria si chinò verso il bimbo e gli spiegò che lei non era la sua mamma, ma che l’avrebbe aiutato a trovarla.
Il piccolo non sentiva ragioni, e non riusciva a staccarlo dal suo abbraccio insistente.
 “Mamma: mamma” diceva con insistenza.
I pochi avventori del locale erano troppo sprofondati nei loro pensieri per notare quanto stava accadendo, nonostante lei cercasse appoggio nei loro sguardi.
Poteva essere un piccolo zingarello scappato da violenze familiari? Poteva essere un bambino dell’istituto per minori in cerca di genitori?
“Vieni con me piccolo, andiamo alla polizia, va bene? Ti ci porto io” concluse lei dopo aver chiesto al titolare del locale se avesse idea di chi fosse quel bambino.

In commissariato i due nuovi arrivati crearono una grande confusione. Tutti si davano da fare per mettere a proprio agio il piccolo, e diedero il via una serie di ricerche, telefonate e fax, allo scopo di identificare il minore smarrito.
Il bambino si stringeva sempre più alla donna, spaesato, aggrappato a lei come ad un salvagente in mare.
Arrivarono anche quelli dei servizi sociali, e trovarono un piccolo in lacrime aggrappato al collo di una donna confusa e a disagio, che giurava che era la prima volta che lo vedeva in vita sua.
“Amore, ti prego, raggiungimi”, telefonò al marito. “Sono in commissariato e temo che la cosa si possa fare lunga”.
Gli agenti le posero mille domande, ed ogni tanto Maria aveva la netta sensazione che qualcuno dubitasse della sua buona fede.
“Ma come avrebbe fatto un bambino così piccolo ad arrivare in quel locale senza essere notato?” le chiedevano.
Lei ignorava tutto quello che era successo prima del suo ingresso al pub, diede il recapito dell’agente immobiliare perché verificassero che non stava mentendo, e tendeva le mani in avanti con i palmi verso l’alto, spesso congiungendole a mò di preghiera. Questo nel linguaggio del corpo significa che la persona non sta mentendo.
E non stava mentendo, Maria.

Finalmente identificarono il bambino. Ne era stata denunciata la scomparsa pochi giorni prima, in circostanze semplicissime: era con i genitori alla fiera del quartiere, quando in un istante si era divincolato dalla mano della madre, e non era stato più trovato.
Il quartiere dove era stato smarrito, in effetti, non era tanto distante dal luogo del ritrovamento. Restava solo da chiarire come avesse fatto il piccolo a gironzolare da solo per tre giorni senza essere notato da anima viva, senza mangiare né bere.

Gli agenti chiamarono immediatamente la centrale dove era stata denunciata la scomparsa, e diedero commossi la notizia del lieto fine. Avevano in mano finalmente il numero di telefono dei genitori, ma nessuno rispose in casa.
“Tesoro, ma che succede?” disse preoccupato il marito di Maria entrando trafelato.
Lei era pallida e con lo sguardo assente, stava per avere un’altra delle sue crisi. La abbracciò stretta a sé, e senza parlare cercò di tranquillizzarla. Sapeva che quello era l’unico modo per farla tornare calma.
“Non capisco…” diceva lei. “Quel bambino, lo senti come strilla con gli assistenti sociali… continua a chiamarmi mamma e non vuole staccarsi da me… L’ho incontrato per caso in un pub poco fa, e da allora continua a credere che io sia la sua mamma.”
Lui si avvicinò al bambino colmo di speranza.

Fra uno strillo e l’altro, il bimbo lo vide.
“Papà!” gridò.
L’uomo aprì la bocca in un grido muto, lo prese fra le braccia con passione, iniziò a piangere.
In quel momento gli squillò il cellulare.

Era la centrale della polizia.

lunedì 21 maggio 2012

Io sono qui

Chi sei tu, che oggi non sai più chi sono?
Mi guardi ma non mi vedi, e non oso parlare per non disturbare i tuoi silenzi.
Dove sei andato, lasciando il tuo corpo su questo letto, silenzioso, grigio?
Non ti riconosco, e come me fai tu, anche se per motivi diversi.


Mi guardi con occhi vuoti, il pensiero altrove, chiuso in te stesso in questa stanza piena di bip bip.


E io sono qui.
Sono qui nello strazio di non potermi far sentire, nel dolore di non riuscire a farmi vedere.
Sono qui a tenerti questa mano rigida, ma capisco che non la allontani solo per rassegnazione.


Mentre galleggi nella tua bolla evanescente, ti guardo, ti tocco e ho paura.
Lo sappiamo da sempre che poteva capitare, ma non si può comunque accettare.
La paura dell'abbandono, della solitudine, il terrore di perderti, papà.


Sei mio padre, ecco chi sei, ecco chi siamo. Devo dirtelo perché tu non lo ricordi più.
Non mi riconosci perché non mi amavi abbastanza? 
Non sai chi sono perché ti sono stata vicino troppo poco? 
Forse non sono stata una brava figlia, forse è colpa mia se oggi non senti più il mio amore.


Ma tu sei altrove, mormori "Mamma", mi laceri il cuore.

martedì 24 aprile 2012

Il saggio

Il saggio ha imparato ad ascoltare il proprio corpo.
Egli sa quando è il momento di fermarsi, quando è l'ora della lotta o quella dell'accettazione.
Si mette continuamente alla prova per toccare i suoi limiti e spostarli un po' più avanti, ma sa fermarsi un attimo prima che quel limite lo pieghi, e accetta il fatto che oggi potrebbe doversi fermare addirittura prima di ieri.


Il saggio ha pianto e urlato, ha maledetto il fato e si è chiesto "Perché?".
Ma poi ha accettato la realtà, si è adeguato a ciò che non poteva cambiare e ha cambiato ciò che era in suo potere modificare. 
E' per questo che è divenuto saggio.


Il saggio accetta il proprio limite, rispetta il suo corpo come un viandante il padrone di casa che lo ospita.
Non rinuncia con fatica a cibi che ama ma che sa nocivi, perché è consapevole di poterseli concedere in un momento di festa. E questa consapevolezza gli permette di privarsene senza alcun rammarico.
Egli non soffre se la taglia del vestito che compra non è più quella di un tempo, ma si nutre della gioia che gli dà indossare quell'abito.


Il saggio ha vissuto con fragore la sua giovinezza, si è rifugiato in luoghi dove nessuno poteva raggiungerlo, ha ferito chi amava.
Ma poi ha salutato la quiete della maturità, ha abbattuto le barriere che lo nascondevano al mondo e ha svelato la sua luce alle persone più care.
E' per questo che è saggio, perché non teme di mostrarsi qual è.


E il saggio si ama. 
E' solo grazie a questo che può definirsi, veramente, Saggio.

lunedì 16 aprile 2012

Per te, amica mia

Moglie, hai abbandonato la tua casa per amore di tuo marito.
Figlia, hai abbandonato i tuoi sogni per amore di tua madre e rimanerle vicino.
Madre, hai abbandonato la tua realizzazione per amore dei tuoi figli.


Donna, ora è il momento. 
E' soltanto per amore tuo che devi alleggerirti di qualcos'altro.

venerdì 13 aprile 2012

Sacco di immondizia

Son bloccata a letto da giorni, sono stata male, molto male.
Devo dire che me la sono cavata, anche se potrei trovarne di cose per cui lamentarmi. Ma diventerei noiosa, e preferisco sorridere a chi mi chiede come stia, fare un cenno di assenso; tanto non mi costa nulla.
Dire che sto bene proprio non mi riesce, ma far sì con la testa è più facile, mi sento meno bugiarda.


Ieri è venuta la parrucchiera e mi ha sistemato la piega. Non mi sentivo a posto. Avevo i capelli nerissimi che raccoglievo in trecce sulla nuca, ma per comodità li ho tagliati corti. Non sono più così belli, ma mi piace non pensarci e ricordare come erano prima.
Gli occhi però sono ancora quelli, così neri da non distinguere la pupilla. Mio marito è sempre impazzito per i miei occhi... e a dire la verità non solo lui!
Ma non prendetemi per una civettuola, a me non è mai interessato altri che lui.


Guardo la sua foto sull'armadio, mi sorride da lontano e ho l'impressione di averlo vicino.
Devo pensarci un istante per rendermi conto che non c'è più, che non entrerà con dei fiori da quella porta. Mi ha sempre viziata, lo ammetto, e mi manca molto.
Eravamo così belli insieme. Adorava quando mi scioglievo le trecce e mettevo la crema sul viso, diceva che sembravo una bambola di porcellana perfetta.
Certo che ne è passato di tempo, anche se non mi sembra.
Mi sento ancora la sua bambola di porcellana, e vorrei pettinarmi di nuovo come facevo per lui.
Ma faccio così fatica a muovere questo braccio.


Un colpo di tosse: è la ragazza che viene ad aiutarmi ad alzarmi. Dicono sia la mia badante, come quei vecchietti non autosufficienti che hanno bisogno di essere aiutati in tutto.
Io sono autonoma, riesco a fare tutto da sola, ma non mi dispiace che qualcuno mi aiuti nelle incombenze quotidiane. Soprattutto ora che sono stata così male.
Magari quando guarirò la manderò via... vedremo.


Si avvicina con un braccio meccanico e mi aggancia con dei moschettoni a dei tiranti.
Il braccio di acciaio mi solleva come su un'amaca, e cullandomi mi sposta verso la sedia a rotelle. Mi giro un istante, un'ombra mi distrae.
E' una vecchia signora quella che appare sull'armadio, quell'ombra che mi ha chiamata a voltarmi. Un ammasso di ossa avvolte in un bozzolo oscillante, un volto scarno contornato di bianchi capelli spettinati, una bocca scavata con qualche dente mancante.
Non la riconosco, mi fa stringere il cuore.
Chi è quella vecchia signora ridotta così male?
E poi d'un tratto ricordo, un armadio a specchio...


Sono sempre io, racchiusa in questo corpo che non mi appartiene più.
Sono ancora io, anche se faccio fatica a rendermene conto.
Sono io.
Un sacco di immondizia.




("Un sacco di immondizia" è come si è definita più volte mia nonna, l'ultima volta che l'ho vista)

mercoledì 11 aprile 2012

Partenza

Partire.
Abbandono, silenzio, sguardo cupo.
Perché non posso restare? E' questa la mia casa, è qui che mi sento me stessa.
Dovevo fare mille cose, e sono riuscita appena a concluderne un paio. E' sempre così ogni volta che vengo.
E ora si parte, si va, ci si perde di nuovo.
Ho lo sguardo assetato di immagini, per portarmi via dettagli che non voglio dimenticare: ad ogni partenza si dilata in me la paura di non trovare più ogni cosa al suo posto, ogni persona come l'ho lasciata, al prossimo ritorno.
   E infine sospiro, rilassamento, abbandonarsi sul letto. Sono a casa finalmente.
Non sono più quella di stamattina, la solita trasformazione si è compiuta durante il viaggio, e una nuova me si distende nella nuova casa, nido caldo nell'odiata città.
Che io lo voglia o no è questa la mia vita, ed è qui che devo stare.
In un paio di giorni questa malinconia sarà cosa passata, basta solo aspettare che il tempo faccia il suo corso... In fondo ci si abitua a tutto.


Se n'è andata.
Anche stavolta il nostro tempo è scaduto, mi sfugge di nuovo e non posso far niente per trattenerla.
Perché non può restare? E' questa la sua casa, è qui che ha le sue radici.
Volevo dirle tante cose, ma a mala pena siamo riusciti a chiacchierare ieri sera, dopo cena.
Guardo i bimbi come sono oggi: al prossimo incontro saranno diversi, e io mi sarò perso la loro evoluzione, una parte di loro, i miei nipotini.
Vorrei allontanarmi, perché non veda i miei occhi arrossati. Ma non posso perdere gli ultimi minuti, lei è ancora qui e preferisco salutarli ancora una volta. Avrò tempo, poi, per stare solo.
Che io lo voglia o no è questa la vita che ha scelto, e devo lasciarla andare.
In fondo in un paio di giorni questa malinconia sarà passata... Ma è inutile prendersi in giro: non potrò abituarmici mai.

mercoledì 4 aprile 2012

Il ghigno beffardo

Il ragazzo ha un sorriso beffardo, quasi un ghigno che gli rimane stampato in faccia anche se non vuole. E' così da sempre, ha quel difetto alle labbra che lo rende diverso.
La gente non fa nemmeno troppi convenevoli, e guardandolo chiede schietta perché abbia la bocca così, senza mostrare eccessiva sensibilità verso di lui. Parlano come se lui non potesse udirli.


Non ne soffriva, prima. Pensava che ognuno avesse un suo segno distintivo che lo rendeva speciale, e sapeva che il suo sorriso particolare lo distingueva dagli altri. Ma col tempo ha iniziato ad accorgersi che essere diversi non sempre è una cosa positiva, che se non ti uniformi al resto del mondo la vita può essere molto più dura di quanto credi.
E così quel ghigno forzato è diventato triste, i suoi occhi sono leggermente colati all'ingiù e la maschera che ne risulta a guardarlo è un grottesco scherzo della natura.


La sua vita trascorre lenta in campagna, ha un limpido ruscello accanto alla fattoria in cui vive.
Ma ultimamente non riesce a spiegarsi certi strani fenomeni: ovunque lui si giri c'è un cespuglio sempre davanti a lui. Sembra appiccicato addosso, tanto gli è vicino.
Nonostante i continui sforzi per liberarsene, non appena il ragazzo si distrae il cespuglio cresce, si allunga inspiegabilmente e torna ad invadere il suo spazio vitale.
A nulla vale sradicarlo, inutile strapparne le foglie.


Frustrazione, sgomento, paura. Come può succedere tutto questo?
Il mondo sembra ribaltato, e le cose accadono in modo così strano da fargli pensare di essere impazzito. 
E una mattina, quando si sveglia, il cespuglio non c'è più.
Al suo posto un albero secolare, dal tronco sofferente e nodoso, le fronde cariche e fitte, e incombe su di lui ben più minaccioso del cespuglio.
Il ragazzo prova a spostarsi, ma si accorge che i suoi piedi sono ancorati al suolo, come tutto il resto del suo corpo è ancorato al cielo, d'altronde. Non riesce a muovere un passo e l'ansia lo assale, il ghigno si allarga in un terrificante urlo, silenzioso e agghiacciante.


"Hai fatto bene a mettere quell'albero al posto del ragazzino, ti era venuto proprio male", esclama una giovane donna abbracciando alle spalle il compagno.
Il pittore si distanzia dal quadro e lo osservano insieme abbracciati, quel paesaggio è davvero bello: un ruscello limpido con una fattoria sullo sfondo, nuvole minacciose sulla destra, e un ulivo secolare in primo piano, contorto, sofferente, a coprire un ragazzo venuto male.


"Ma come mai quella macchia rossa fra le foglie?"
"Non so, devono essere questi colori di qualità scadente... più provo a coprire il ragazzo e più mi torna fuori... cambierò marca"
Dietro all'ulivo, uno strappo sulla tela, impercettibile.
Il ragazzo è riuscito a divincolarsi dall'abbraccio soffocante della vernice ed è salito più in alto che ha potuto, fra le foglie fitte.
Finalmente si respira, e come cullato in un nido accogliente si addormenta sereno, il respiro rallenta, il ghigno si schiude.


martedì 3 aprile 2012

Dettagli e bagagli

Sonia va in metrò oggi. 
Non ama scendere in quel tunnel dall'odore pungente perché non vede il paesaggio, che sebbene spoglio e grigio è pur sempre meglio dei muri bui di quel cunicolo sotterraneo. 
Scivola giù silenziosa e trasparente con le scale mobili, e aspetta l'ondata di aria fredda che preannuncia l'arrivo del convoglio.  Quando l'aria che odora di bruciato le muove i capelli, fa istintivamente un passo indietro guardandosi attorno, non si sa mai.  
Non è l'ora di punta, Sonia trova posto senza problemi e si siede con la sguardo perso davanti a sè.  


Arriva un'anziana signora, borsa e sacchetti, e si siede proprio di fronte a lei.  
Tira fuori un romanzo d'avventura e si dimentica del mondo.  Non la vedresti una donna di quell'età con un romanzo così, e la cosa incuriosisce, lascia trapelare qualcosa di sè. 


Una fermata ancora e sale un'altra donna, capelli cortissimi completamente bianchi, occhi blu e scollatura abbondante.  È molto bella, sembra una modella di taglie "comode", un'esplosione di salute e raffinatezza. Borsa e sacchetto di carta in mano. 
Si siede e pensa, nient'altro. 
Chissà se ha una famiglia, chissà se si veste così per qualcuno, o semplicemente per piacere a se stessa. 


Una ragazza con le cuffie alle orecchie sta leggendo un libro di scuola, i capelli le coprono metà del volto, borsa sulle ginocchia e zaino ai piedi. 
Sottolinea più volte le stesse frasi, poi disegna un cuore sul bordo della pagina e si ferma un istante ad ammirarlo. La storia di ogni adolescente, e Sonia avrebbe voglia di parlarle, di metterla in guardia, di insegnarle la vita così come l'ha dovuta imparare lei.   


Poi guarda la sua di borsa, e inizia a notare ogni donna che le viaggia accanto.  
Ognuna col suo bagaglio, chi una sola borsa, chi è carica di sacchetti e buste, ma tutte sono piegate sotto il peso che si trasportano dietro.  Le donne la colpiscono e le regalano emozioni, le fanno tenerezza, le sembrano così forti e sole allo stesso tempo. Si sente solidale, le chiama sorelle.  
Ogni dettaglio le rende uniche e parla di loro.  


Prova a guardare anche gli uomini ma si accorge ben presto che non le suscitano alcun interesse. Sono vuoti contenitori di azioni, e dai loro occhi ben di rado emerge un'emozione. 
Uguali le divise, uguali i discorsi, non portano nulla con sè ad eccezione delle tasche gonfie che tradiscono un portafogli o un mazzo di chiavi. Banalità.  
Nessun segreto, nessun bagaglio, niente di niente.  
Osservano il vuoto o parlano a telefono a gran voce, inutili corpi che occupano posti.  


Arriva un giovane con lo zaino pesante, è bucato alla base e dai fori esce musica. Suona col sax una trascinata melodia di pubblicità, poi passa col cappello e scende al volo prima che si richiudano le porte.  Sonia lo segue con lo sguardo, si emoziona. Gli uomini nemmeno lo notano.  
Anche lui porta qualcosa, ha un curioso bagaglio e le sue azioni raccontano qualcosa di sè.  È arrivata la sua fermata. 


Sonia scende ed emerge alla luce. 
Il suo viaggio nel cuore della terra le ha insegnato molto.  
Prende una margherita e se la mette fra i capelli: parlerà di lei. 

lunedì 2 aprile 2012

2 Aprile 2010

Senti, arriva. Ecco le ruote che risuonano sul pavimento nudo.
Lo sento avvicinarsi e sorrido: è lui che viene. 


Chiuso nel suo guscio di plexiglas arriva annunciato da quell'atteso rotolare, e si vedono solo le piccole mani che si agitano dal lenzuolo celeste. 
Anche il suo pianto è attutito all'interno di quella culletta, ma è tanto rosso in viso che non ci sono dubbi su quanto si sforzi per farsi sentire.

Arriva da me, arriva per me dopo una lunga attesa. 

Lo aspetto con ansia da quando l'hanno portato via per le visite di routine, e mi manca dal primo istante.
Lo amo e non lo sa, quel morbido essere minuscolo ed arrabbiato. 

Ma non posso perdere tempo ora, devo prepararmi, lui sta arrivando finalmente!

E, di nuovo, sorrido. 


Sono passati due anni tesoro, due anni piccoli piccoli, ma che ti fanno sentire già grande.
Due anni che sembrano un'eternità, dal momento che non riesco nemmeno a ricordare come fosse la mia vita senza di te.


Tanti auguri piccolo mio!

giovedì 29 marzo 2012

Il bambino che non c'è

Dicono che si provi un grande dolore.
In realtà per me non è stato così. Non è il dolore che ricordo, se mi guardo indietro.
C'è il vuoto, c'è il freddo, c'è un silenzio che ti si appiccica addosso anche a distanza di anni.


Rivedo ragazze, donne, perfino ragazzine in quel corridoio, ognuna con la sua risata spavalda e la sua aria di indifferenza, prima.
Ma quando si esce ciascuna è piegata su di sé, un po' per il fastidio fisico, un po' per l'insopportabile peso che porta addosso. Ognuna è appoggiata al braccio di qualcuno che l'accompagna, che l'accarezza ma non capisce.
Come si fa a capire, se non lo si prova?


C'era vita in questo corpo, c'era calore, c'era un fruscio leggero che mi accompagnava in ogni istante.


Dicono che non si dimentichi mai.
E' cosa significhi quel "mai" che va spiegato, a chi non sa.
Mai significa soltanto una cosa: mai, mai, mai.
Passi i primi anni a guardare bambini incrociati per caso e immaginare qualcun altro, qualcuno che non c'è, che non è mai stato altro se non un breve pensiero.
Oggi avrebbe la sua età, ti ritrovi a mormorare a te stessa con gli occhi aggrappati ad un bimbo sorridente.
Poi un bel giorno ti accorgi che non guardi più gli altri bambini. Ti sei dimenticata.
Oh no, no, no.
Non ti sei dimenticata affatto, semplicemente il tempo smussa gli spigoli, e le cose si vivono con meno impeto. Cerchi di non pensarci più, ma ti basta passare davanti ad una scuola media e, senza sapere come, ti fermi a pensare a che classe farebbe oggi, e chissà se avrebbe la tuta rossa o blu per fare ginnastica.


Dicono che ti segni per sempre.
Come potrebbe non essere così: ora sono sola. Sola con la mia vecchiaia, con questa dannata sigaretta in mano e la spietata certezza che tornando indietro rifarei la stessa cosa.
E' il silenzio che mi angoscia, quel silenzio che continua a perseguitarmi, rotto soltanto dai piccoli tonfi ritmici uditi per la prima volta, per l'ultima volta, tanti anni fa.


Non mi importa degli altri, di quello che possono pensare, di come mi possono vedere.
Che pensino, che giudichino, io resto la stessa di prima.
E' il suo giudizio che temo, sono i suoi occhi che mi appaiono nel buio luminosi, che continuano a chiedermi perché e non danno tregua alla mia coscienza.


E' soltanto a lui che devo rendere conto dei miei trascorsi.
C'era vita in questo corpo, e non mi sono più sentita così completa.
C'era calore nel mio intimo, un piccolo e innocente segreto che mi portavo dietro all'insaputa di tutti, che mi teneva compagnia con la sua ingombrante presenza.
C'era un fruscio leggero che mi solleticava a tratti e si nutriva allegramente di vita.


E' a te che chiedo perdono oggi.
Bambino mio.

martedì 27 marzo 2012

Al supermercato

Mi stanno aspettando in macchina, dovevo solo comprare qualcosa al volo.
Per fortuna è l'ora di pranzo e le casse sono insolitamente libere per essere un sabato. Ne scelgo una guardando il carrello di chi mi sta davanti (mi riprometto sempre di non scegliere in base a questo criterio ma poi ogni volta me ne dimentico).
Sono riuscita ad arrivare prima della signora bionda, ho accelerato all'ultimo momento e l'ho guardata con decisione negli occhi. Lei ha cambiato fila.
Il carrello in fila davanti al suo è pieno, mi è andata bene.


Poi lo vedo.
Siede alla cassa con lo sguardo perso nel vuoto, cerca tentoni gli oggetti sul nastro e li passa davanti al lettore rigirandoli più volte, per trovare il codice a barre.
"Tesoro, non in bocca", esclama una nonna ad un passeggino che sembra vuoto.
Lui la guarda senza vederla, poi schiaccia il tasto del totale guardandosi il dito e torna ai suoi pensieri, che sembrano materializzarsi proprio in fondo al lungo corridoio.
La nonna porge le banconote a lungo, mentre controlla il passeggero nascosto da una copertina, e finalmente il cassiere le dà il resto.


La signora bionda sta svuotando il carrello.
Ho ancora una coppia davanti, spendono 127 euro. Il ragazzo sorride, sembra compiaciuto nel tirar fuori il portafogli.
Beato lui, c'è poco da ridere, penso.
Il cassiere sbadiglia lentamente prima di prendere il bancomat: in fondo al corridoio deve succedere qualcosa di molto noioso.
Passa un dito umidiccio su un invisibile granello di polvere, poi con la manica del camice prova a lucidare la scia che ha lasciato.


Poco più in là, la signora bionda paga mentre il commesso mi apostrofa con un vivace "buongiorno" e un inatteso sorriso.
Che strano, si è svegliato.
Ma il nastro si ferma con le mie due cose accatastate, mentre lui le cerca con lo sguardo di nuovo fisso e sbadiglia ancora, coprendo la bocca col dorso dell'altra mano.
Deve aver fatto le ore piccole ieri sera.


Provo ad immaginarlo in discoteca a ballare scatenato. Provo a visualizzarlo ad una tavolata di amici chiassosi. L'idea di un incontro romantico non mi sfiora neppure, ma anche con le altre due non ho un gran successo.
Guarda il vuoto catatonico, poi mi porge lo scontrino.
Lo vedo in tuta sprofondato sul divano della madre, a guardare la tivvù fino a tarda notte.


La signora bionda è già alla macchina.