venerdì 21 ottobre 2016

Perdonare?

Dicono che dentro di me so già la risposta, che il mio cuore sa quello che va fatto.
Dicono che nessuno può darmi consigli, perché io sola conosco già la soluzione.
Ma il mio cuore non parla, chiuso in quella morsa agghiacciante che lo ha annichilito, tre giorni fa.
Pietra.
Pietre dentro, nello stomaco che pesa tanto da togliere il fiato, negli occhi che non hanno più lacrime.
Tre giorni di buio, di confusione totale e niente è più come prima.

Ma se mi guardo attorno è ancora tutto uguale, niente sembra cambiato dal di fuori.
Non ci sono nemmeno tracce di lei, se non i fantasmi che aleggiano nei miei pensieri e la collocano con il sorriso malizioso sui divani, sulla mia poltrona, nel nostro letto.

Dicono che dentro di me so cosa fare.
Si, certo, ucciderli!
Come loro hanno ucciso me del resto…
Ma la verità è che NO! non è vero! non so assolutamente cosa fare altrimenti non chiederei aiuto qui, ora, implorante.
Vorrei solo tornare indietro a quando potevo guardarlo negli occhi senza sentirmi umiliata, e presa in giro, e tradita in questo modo atroce.
Vorrei solo buttarmi fra le sue braccia aperte e perdonarlo, se questo significa dimenticare e cancellare tutto.
Voglio smetterla di sentirmi in colpa, come se lo avessi spinto io fra quelle braccia estranee con qualche mio comportamento.
E rivoglio la mia vita di prima, quando non sapevo, quando potevo perfino godere del lusso di una notte di sonno senza che l'immagine di loro due mi tormentasse ogni molecola nel buio.
Quel buio che mi circonda e pesa sul cuore, che non sa più come battere.
Rivoglio i nostri progetti, i miei sogni, il futuro che non vedo più.

Intanto continuano a dirmi di prendermi tempo, che la soluzione verrà.
Lui continua a implorare e piangere.
Solo io non so più continuare e rimango qui, cristallizzata nel mio sconforto, ferma.

martedì 19 febbraio 2013

Il silenzio di Lea

Doveva decisamente smettere di fumare.
Lea si era svegliata all'alba in preda ad una tosse malefica che le tagliava il respiro, e non era più riuscita a dormire.
Troppi pensieri, e quella dannata tapparella che lasciava filtrare la luce del lampione della strada...

Non l'ha ancora sistemata. Gliel'avrò chiesto decine di volte. Sempre che ne sia capace, ovviamente.
Devo ricordarmi il sugo per Teo, prima che parta.
Devo anche mettergli le lenzuola in valigia, senò le dimentica come la settimana scorsa.
Gli avrà già dato i soldi, Lui? Guarda là come dorme beato... e poi si dimentica pure di dare la paghetta al figlio che parte per l'università.
A proposito, domattina devo andare a prelevare, io li ho finiti. 
E forse sono finiti anche in banca se ci penso bene. Decenni di lavoro e un bel giorno grazie mille, è stato un piacere, ecco la sua liquidazione! Evviva.
Beato Lui che ronfa senza pensieri.
E poi c'è l'avvocato. Devo chiamarlo per sapere a che punto è la causa di risarcimento. E devo chiamare l'oculista per prenotare il controllo. Stavo quasi dimenticando di disdire l'abbonamento a Felicità. Non è più tempo per queste riviste, ora che c'è un solo stipendio. E che stipendio, ahah!

"Sei sveglia?" chiese piano Lui allungando una mano sul cuscino.
Per tutta risposta un rantolo di tosse, e poi un secco "Si".
Lui si girò tirandosi dietro le coperte, bisbigliò qualcosa che doveva sembrare un vago "non stai bene?", e riprese a dormire.
"Figuriamoci se si sveglia" pensò lei tra sé stizzita.
Proprio la sera prima, l'ennesimo batti becco.
"Ti avevo chiesto di pensare tu all'idraulico, sono giorni che manca l'acqua calda, non è possibile che ti sia dimenticato ancora"
"Mi dispiace, te l'ho detto, ma guarda che quando sono in ufficio non sto mica a giocare. Non posso pensare a tutto io" aveva ribattuto Lui.
"A tutto tu? Per esempio? Fammi un esempio di quello a cui pensi tu, vediamo"
"Per favore non fare le solite scenate..." aveva tagliato corto, sfilandosi i pantaloni malfermo sulla gamba di appoggio.
Forse lo guardava per la prima volta, o forse non si era mai accorta di quella pancia abbondante che gli era venuta, e della calvizie che procedeva inesorabile: un estraneo in canottiera e mutande.
"Non sono le solite scenate, e tu non lo hai ancora capito. Non è questo che volevo da un marito, non è questo che avevo visto in te..."
"D'accordo. Proverò a cambiare" aveva risposto lui distrattamente, convinto che fosse la solita crisi passeggera, e che sarebbe svanita da sola senza alcuna necessità di impegnarsi.

Senti come russa. La prossima volta che allunga la mano gliela mordo, chissà, magari si scuote e mi ascolta veramente.

Lea si abbandonò sul cuscino con gli occhi aperti, continuando la sua lista di pensieri. Una marea di cose da fare, e il suo stomaco ricominciava a bruciare. Tutto gravava su di lei, e sapeva di essere ad un passo dal crollo.
Sorridendo nel sonno, Lui si girò verso di lei e allungò la gamba per cercare la sua. Lei la ritrasse quanto bastava per scostarsi, ma Lui avanzò ancora.

Ovviamente cerca il contatto fisico. Conta solo quello per "loro". Ma da quanto tempo non mi guarda negli occhi, piuttosto? Da quanto tempo non lo fa a me, quel sorriso idiota che adesso ha stampato su quella faccia rotonda? Amore? Ma che amore, ma per piacere... non so nemmeno perchè siamo ancora qui.
Vediamo... devo accompagnare mia suocera al controllo, e poi vuole che la porti al cimitero a trovare il marito. Ma prima devo passare alla posta a spedire una raccomandata.
E l'ago aspirato lo farò poi... non è così urgente in fondo. Quando avrò un attimo di tranquillità ci andrò. Non è così urgente in fondo. L'ha detto anche Lui che non è niente, no?

"Ma sei già sveglia?" chiese di nuovo Lui, con semplicità.
"Ho un sacco di pensieri"
"E rilassati una buona volta... prova a dormire un po', vedrai che domani starai meglio. Sei sempre così ansiosa e complicata..." E riprese a russare.

Nel silenzio interrotto dal fastidioso sibilo gutturale, Lea strinse forte a sè il cuscino, trattenendo la rabbia e la voglia di gridare.
Lo stomacò bruciò più forte, e capì che era arrivato il momento di smettere.
Smettere col fumo, smettere con lo stillicidio che la stava distruggendo, smetterla con quella vita.
Appoggiò il cuscino sulla faccia rotonda che dormiva a bocca aperta e indugiò qualche istante.
Nel silenzio non interrotto più da alcun rumore, si sentiva finalmente libera.


P.S.
Questa storia non è autobiografica!
(O per lo meno, soltanto un pochino)

giovedì 14 febbraio 2013

Il consiglio


Non essere onesto, figlio mio, non paga.
Se ami la quiete, se vuoi serenità, dimentica di essere una brava persona e adeguati al mondo.
Le brave persone sono le più vulnerabili, perchè è facile attaccare chi sai non reagirà.
Le brave persone sono quelle ricattabili, perchè si sa che all'imbroglio non ci sarà una risposta disonesta.
Le brave persone devono sempre giustificarsi, perchè si sono fidate di qualcuno di sbagliato, e la colpa ricade su di loro.
Le brave persone, infine, sono quelle che soffrono, perchè di fronte a un'ingiustizia nessuno le difende.

Quindi non essere una brava persona, è questo il mio consiglio.
Riserva la sincerità per chi ami, e lascia il tuo lato glaciale al resto del mondo.

Sii buono come il cuore ti suggerisce, ma quando è ora della lotta non risparmiare i colpi bassi: il tuo avversario li tirerà, e l'unico modo per non rimanere senza fiato è quello di darglieli più forti.
Sii onesto come è nella tua natura, ma quando vedi il guizzo della disonestà nello sguardo di chi hai di fronte, sii pronto a bluffare per primo, perchè è l'unico modo per non restare senza carte in mano.
Sii corretto come ti è stato insegnato, ma quando subisci un fallo a gamba tesa non fermarti a massaggiare la ferita: reagisci veloce, forte e implacabile.

Mi hanno insegnato la lealtà, l'onestà e la correttezza, ed è l'unica cosa che so portare come arma in guerra.
Dall'altra parte hanno mitra e cannoni, e il rapporto è così impari da rendere ogni conflitto segnato.

Quindi non fidarti di nessuno: solo così non sarai colto di sorpresa e non dovrai mai giustificarti; solo così non sarai ricattabile; solo così non sarai mai vulnerabile.
Se poi sarai felice, questo lo ignoro.
Ma senz'altro, figlio mio, non sarai una vittima.

venerdì 4 gennaio 2013

Il Principe che non c'è

Sembra quasi che tu sia ancora in attesa che il Principe Azzurro ti venga a salvare, portandoti via con sé.
O al contrario che tu abbia capito che invece non arriverà più, spegnendo la luce divertita che avevi nello sguardo.

Ti dico solo una cosa.
Nessuno al mondo ci può salvare.

A parte noi.

martedì 4 dicembre 2012

Natale da sola


Sarò sola questo Natale.
I ragazzi sono in montagna con gli amici, e i miei hanno deciso di festeggiare il loro anniversario in crociera.
Quarantacinque anni! sembra incredibile poter passare tanto tempo insieme a qualcuno.
Resterò da sola dunque, e fammi pensare un momento, forse sarà per la prima volta da che mi ricordo.
Eh sì, perché quegli anni in cui mi lamentavo di essere sola, in realtà c’erano i gemelli con me, e anche se era un po’ pesante, sola non lo sono mai stata…

C’è stato l’anno zero, come lo chiamiamo noi, quello in cui un biglietto proibito letto dalla persona sbagliata (io!) al momento sbagliato (la vigilia di Natale) ha sancito la fine del mio matrimonio. I bambini si sono stretti a me e, per reazione, da allora i nostri Natali sono stati uno più bello dell’altro. Ogni anno ci superavamo in decorazioni e festoni, e la nostra casa era diventata meta di pellegrinaggio per amici e parenti.
Oltre alla bellezza delle luci, alle dimensioni dell’abete, agli addobbi sparsi per casa tanto da sentirti catapultata nella baita di Babbo Natale, c’erano sempre biscotti alla cannella, tazze di cioccolata calda e il pandoro fatto in casa, che impregnava l’aria di vaniglia e zucchero.
Il giorno di Natale, poi superavo me stessa.
Era un po’ come se volessimo cancellare il ricordo di quel tradimento soffocandolo con l’atmosfera della perfezione.

E di Natale in Natale sono invecchiata, accidenti. Me ne accorgo guardando i miei figli, perché per il resto mi sento la stessa.
La stessa di diciotto anni fa, quando li ho abbracciati per la prima volta. Non mi sembra nemmeno che sia passato tutto questo tempo…

Sono qui incantata davanti alle candele, e non sono riuscita proprio a finire la cena della vigilia. Sparecchierò domani.
E’ la prima volta che la trascorro da sola, abbiate pazienza.
“Sei proprio sicura, mamma?” mi hanno chiesto con garbo prima di prenotare, preoccupandosi di lasciarmi senza darmi un dispiacere.
Cosa rispondere?
Mi sarei buttata al collo implorando loro di non lasciarmi mai, avrei piagnucolato in modo pietoso che senza di loro non sarebbe mai arrivato il vero Natale, ma ho annuito decisa, sorridendo per conferma. 
Andate, figli miei.

Come quando li incoraggiavo da piccini a buttarsi nella mischia: quante volte ho dovuto spingere per farli andare, quanti sorrisi di incoraggiamento ho speso per renderli sicuri, per farli camminare con le loro gambe, per far sì che si allontanassero dal nido per la loro strada.
Loro si giravano a guardarmi, aspettando un cenno da parte mia, e io annuivo sollevando le sopracciglia, come a dire “Allora? Che aspetti?”. Solo allora si decidevano.
E ora che si sono allontanati, ora che camminano decisi, ora che sono due splendidi giovani con il futuro nelle loro mani asciutte e forti, io resto a guardarli.
Li osservo dalla mia seggiola traballante, al principio della via, mentre loro si immettono sereni nella corsia della loro vita.

La stanza brilla di luci colorate, i canti di Natale come sottofondo, le candele indugiano in quest’atmosfera di festa. Mi accomodo sul divano e mi godo gli addobbi.
A quest'ora Babbo Natale prepara le sue renne per iniziare il giro del mondo…
Verso dello spumante ghiacciato nel mio calice e lo sollevo per brindare, guardando le bollicine che salgono in superficie partendo da un punto misterioso attaccato al vetro. Dopo un sorso leggero, socchiudo gli occhi e lo assaporo.
Sotto il mio albero maestoso, due pacchetti incartati aspettano di essere aperti. Loro torneranno fra qualche giorno, saranno contenti dei loro regali.

Quel lieve tuo candor, neve, discende lieto nel mio cuor…” Abbandono la testa sul divano, e scivolo velocemente nel sonno.

                                                                      -----

Din… din… din…
Mi sveglio di soprassalto. E’ già mattina, ho dormito proprio come un sasso! Dove sono? Ah, sì, mi ero addormentata sul divano con la copertina… aspetta un attimo, non avevo la copertina.
Devo essermela messa questa notte senza ricordarmene. Che strano.
Ancora quel tintinnio! Ma che succede?
Oh mamma! E’ passato per davvero Babbo Natale? Sotto l’albero ci saranno almeno dieci pacchetti infiocchettati, e la tavola è apparecchiata per la colazione delle grandi occasioni!
Non credo ai miei, occhi, non oso illudermi…
                                  “Buon Natale, mamma!”
Due cappelli rossi bordati di bianco, un campanellino leggero, tre tazze di cioccolata fumante.
Due ragazzi -i miei bambini, due uomini!- sorridenti.

I veri amori della vita.


Con questo racconto partecipo al concorso "Christmas Gift", di My Caffè Letterario e Locanda dei Libri





mercoledì 28 novembre 2012

Ti ho cercato


Ti ho cercato tanto.
Ti ho cercato come presenza, aspettandomi quasi di sentirti accanto, stupita di non avere quel sesto senso che ti fa sapere quando ancora non sai.
Ti ho cercato in una chiesa, fra l’odore delle candele e l’asprezza dell’incenso.
Ti ho cercato sotto questa pioggia incessante, così simile ai miei sentimenti, che batte il mare e lo schiaffeggia inutilmente, inghiottita poi fra le sue onde schiumose.
Ti ho cercato prendendoti per mano, quella mano fredda e senza quasi consistenza, che sembra cera per quanto è liscia.
Ti ho cercata, ma non c’eri.

Non c’eri più.

Poi il mio sguardo desolato si è fermato sulla foto che tenevi sul comò, e sul quadro con i fiori bianchi che hai appeso accanto al letto.
Ho guardato il copriletto rosa antico e le tue sedie del matrimonio, che ti hanno seguita in ogni trasloco, quasi sgangherate nella loro antica eleganza.
E ho guardato l’armadio, scrigno misterioso che era il tuo mondo, che aprivi soltanto per fare qualche regalo, dal tuo portafogli consumato, come una cosa segreta, personale, inviolabile, con un pacchetto di caramelle sempre nascosto dentro.

E ti ho trovata finalmente.
Tu eri a due passi da me, nella scatola dei foulard, fra le calze di lana ben piegate nel cassetto, fra le lenzuola del corredo coperte per non prendere troppa polvere.
Eri accanto alla foto del tuo Filippo, nel vasetto con due rigidi fiori finti, nel centrino di pizzo che avevi ricamato da ragazza.
C’era la tua presenza fra le foto dei nipoti attaccate alle pareti, fra quelle incorniciate nell’argento, e guardandole le vedevo con i tuoi occhi; parlavano di te e della tua vita, della solitudine e della famiglia lontana.

Ti ho trovata infine nel tuo cofanetto dei gioielli, svuotato da tempo ormai, che conteneva la foto di un amico scomparso, un santino a cui votarti, e un piccolo libricino.
Te l’avevo regalato un secolo fa, o forse più, ti aveva riempito di gioia oltre qualsiasi aspettativa.
Quello piccino come un mignolo, quello dal titolo “Cara nonna”, quello che riposa con te ora, fra le tue mani di cera.

venerdì 22 giugno 2012

Il trovatello

Maria stava camminando lungo una strada nuova. Aveva appuntamento con l’agente immobiliare e si guardava intorno piena di interesse.
Le piaceva quel quartiere pieno di alberi e verde, e le persone che ci vivevano sembravano gentili e amichevoli.
Da qualche giorno avevano deciso di cambiare vita, e il primo passo era senz’altro il cambio della casa, del quartiere, delle abitudini quotidiane.
L’appartamento era carino, e dopo le solite formalità con l’agente immobiliare Maria decise di prendersi una pausa al caffè all’angolo.
Un modo in più per conoscere la zona.
Il locale era in penombra, ed era un posto più stile pub inglese che il solito bar italiano, ma non così pesante nell’arredamento.
Essenziale e pulito, questa era la principale impressione.
Maria si era seduta su uno sgabello al bancone, e aveva ordinato un caffè decaffeinato e un bicchier d’acqua. Ci versò dentro delle gocce -non ricordava nemmeno più per cosa gliele avessero prescritte- e bevve, vagando con lo sguardo sereno e tranquillo.

Un bimbetto le si avvicinò pieno di entusiasmo.
“Mamma!” aveva esclamato, e le aveva abbracciato la gamba. Era sicura che si fosse confuso con qualcun’altra, ma era l’unica donna nel locale.
Il bambino avrà avuto si e no tre anni, era parecchio sporco, e in effetti aveva proprio l’aria di essersi perduto.

Leggermente a disagio, Maria si chinò verso il bimbo e gli spiegò che lei non era la sua mamma, ma che l’avrebbe aiutato a trovarla.
Il piccolo non sentiva ragioni, e non riusciva a staccarlo dal suo abbraccio insistente.
 “Mamma: mamma” diceva con insistenza.
I pochi avventori del locale erano troppo sprofondati nei loro pensieri per notare quanto stava accadendo, nonostante lei cercasse appoggio nei loro sguardi.
Poteva essere un piccolo zingarello scappato da violenze familiari? Poteva essere un bambino dell’istituto per minori in cerca di genitori?
“Vieni con me piccolo, andiamo alla polizia, va bene? Ti ci porto io” concluse lei dopo aver chiesto al titolare del locale se avesse idea di chi fosse quel bambino.

In commissariato i due nuovi arrivati crearono una grande confusione. Tutti si davano da fare per mettere a proprio agio il piccolo, e diedero il via una serie di ricerche, telefonate e fax, allo scopo di identificare il minore smarrito.
Il bambino si stringeva sempre più alla donna, spaesato, aggrappato a lei come ad un salvagente in mare.
Arrivarono anche quelli dei servizi sociali, e trovarono un piccolo in lacrime aggrappato al collo di una donna confusa e a disagio, che giurava che era la prima volta che lo vedeva in vita sua.
“Amore, ti prego, raggiungimi”, telefonò al marito. “Sono in commissariato e temo che la cosa si possa fare lunga”.
Gli agenti le posero mille domande, ed ogni tanto Maria aveva la netta sensazione che qualcuno dubitasse della sua buona fede.
“Ma come avrebbe fatto un bambino così piccolo ad arrivare in quel locale senza essere notato?” le chiedevano.
Lei ignorava tutto quello che era successo prima del suo ingresso al pub, diede il recapito dell’agente immobiliare perché verificassero che non stava mentendo, e tendeva le mani in avanti con i palmi verso l’alto, spesso congiungendole a mò di preghiera. Questo nel linguaggio del corpo significa che la persona non sta mentendo.
E non stava mentendo, Maria.

Finalmente identificarono il bambino. Ne era stata denunciata la scomparsa pochi giorni prima, in circostanze semplicissime: era con i genitori alla fiera del quartiere, quando in un istante si era divincolato dalla mano della madre, e non era stato più trovato.
Il quartiere dove era stato smarrito, in effetti, non era tanto distante dal luogo del ritrovamento. Restava solo da chiarire come avesse fatto il piccolo a gironzolare da solo per tre giorni senza essere notato da anima viva, senza mangiare né bere.

Gli agenti chiamarono immediatamente la centrale dove era stata denunciata la scomparsa, e diedero commossi la notizia del lieto fine. Avevano in mano finalmente il numero di telefono dei genitori, ma nessuno rispose in casa.
“Tesoro, ma che succede?” disse preoccupato il marito di Maria entrando trafelato.
Lei era pallida e con lo sguardo assente, stava per avere un’altra delle sue crisi. La abbracciò stretta a sé, e senza parlare cercò di tranquillizzarla. Sapeva che quello era l’unico modo per farla tornare calma.
“Non capisco…” diceva lei. “Quel bambino, lo senti come strilla con gli assistenti sociali… continua a chiamarmi mamma e non vuole staccarsi da me… L’ho incontrato per caso in un pub poco fa, e da allora continua a credere che io sia la sua mamma.”
Lui si avvicinò al bambino colmo di speranza.

Fra uno strillo e l’altro, il bimbo lo vide.
“Papà!” gridò.
L’uomo aprì la bocca in un grido muto, lo prese fra le braccia con passione, iniziò a piangere.
In quel momento gli squillò il cellulare.

Era la centrale della polizia.