mercoledì 8 febbraio 2012

Piccolo uomo

Era un piccolo uomo.
Arrivava a mala pena al metro e settanta, ma non soltanto in quel senso mi sembrava piccolo.
Non aveva viaggiato né studiato, e a malapena parlava l’italiano, convinto com’era che il dialetto fosse tutto ciò che serviva per comunicare.
Mio padre era così.
Così semplice e privo di cultura che in diverse occasioni me ne sono vergognato.
Credevo di volergli bene: era mio padre, e gli ero affezionato. In fondo mi aveva fatto studiare, e grazie a questo ero diventato molto migliore di lui.

In quei tempi vestivo soltanto abiti firmati, con sciarpe di seta e scarpe di grande pregio, e quando mi capitava di incrociarlo nell’androne, al ritorno dai suoi lavori nei campi, infangato e piegato dall’artrosi, indugiavo dietro la colonna per non farmi vedere.
Passavo a salutarlo a casa tutti i giorni, fermandomi a chiacchierare con mia madre, ma non riuscivo a restare più di cinque minuti in quell’appartamento spoglio e dall’odore di aglio e vino fermentato. Loro erano contenti delle mie visite: sono un dottore di successo, ed erano visibilmente orgogliosi di avermi come figlio.

Non altrettanto valeva per me, e mi infastidiva il modo in cui si prendeva gioco della vita, il suo orgoglio per me come se fosse tutto merito suo, e che i suoi unici argomenti fossero concimazioni e potature.

Un pomeriggio come tanti mia madre mi chiamò allarmata: papà non stava bene, farfugliava e non muoveva la gamba e il braccio sinistro. Corsi a casa e lo trovai molesto e agitato. Parlava solo con metà bocca, chiaro segno di ictus, e niente di ciò che diceva aveva senso.
In ospedale confermarono la mia diagnosi, e lo trattennero in geriatria.
Mi vergognavo per l’odore che emanava e per l’aspetto trasandato che aveva, e mi scocciava che i miei colleghi lo associassero a me.
Dopo tre giorni, tra lievi miglioramenti e nuovi peggioramenti, il medico di turno mi chiamò a notte fonda. Mio padre non c’era più.
Uscii nel gelo e mi precipitai in reparto.
Lui era a letto e sembrava dormire. Lo avevano lavato ed emanava un piacevole odore di sapone.
Mi avvicinai e ascoltai le mie emozioni.
Nulla.
Il silenzio dell’ospedale era penetrato anche nel mio spirito, e non sentivo altro che i battiti regolari del mio cuore serrato.
Mi sedetti accanto a lui e chiusi gli occhi per lasciarmi invadere dalle sensazioni.
Ma non successe nulla.
Gli feci una carezza e decisi di tornare a casa: non c’era alcun motivo di restare, e l’indomani sarebbe stato un giorno faticoso.
Mi misi a letto con lo sguardo vuoto, e chiusi gli occhi.
Lui era lì, e stava dormendo.

Aprii subito gli occhi e mi guardai intorno. Ogni cosa era al suo posto, ero nella mia camera e andava tutto bene.
Chiusi di nuovo gli occhi, e lui era ancora lì. Mi soffermai su quell’immagine. 
Era notte fonda, e mi aspettava nella macchina spenta nel parcheggio della stazione.
Il treno aveva fatto un ritardo di ore per via di un traliccio caduto per la neve, e non esistevano ancora i telefonini per avvertire. Mio padre sapeva che sarei tornato dall’università ed era venuto in stazione per non farmi prendere freddo sotto la neve. Il ritardo non lo aveva scoraggiato, e con i piedi sul volante aveva tirato giù il sedile per appisolarsi un po’.
Quando finalmente arrivai, lui mi sorrise pieno d’amore, e io mi allontanai dai miei compagni per salire in macchina. C’era solo lui nel parcheggio a quell’ora tarda.
“Non vedi come sono sporche le tue scarpe…” avevo sibilato sperando che nessun altro le avesse notate.

Mi svegliai col fiatone e il cuore oppresso. Tutto andava bene, era solo un sogno. O forse era un ricordo? Nella notte i confini fra realtà e fantasia si sovrappongono con estrema facilità.
Mi soffermai a pensare, e un secondo ricordo si fece largo fra le nebbiolina del sonno che indolenziva le mie reazioni. 
Una mattina ero tornato a casa con della frutta trafugata in un campo, e mi aveva chiesto come avessi fatto a pagarla. Mi aveva poi accompagnato a restituirla, per mano, a testa alta. 
Non si era vergognato di me, lui.
Non si è mai vergognato di me, nemmeno quando l’ho lasciato solo, in un ospedale silenzioso, in una fredda notte di febbraio.

Solo in quel momento realizzai che non l’avevo mai sentito lamentarsi, ma che aveva passato la vita a guardarmi sorridendo, compiaciuto di quello che ero. Credevo di avergli voluto bene, ma mi sbagliavo: lo amavo da sempre, e me ne accorgevo soltanto in quel momento.

Corsi di nuovo in ospedale.
Dormiva sereno nel suo sonno eterno, e finalmente lo abbracciai. 
Sdraiato accanto a quel piccolo uomo ho pianto per lui e per me, per il tempo che avevo perso, per l’amore che avevo ritrovato.

3 commenti:

  1. Lo schema, la scaletta, la scrivo a mano.
    Batto sul computer un testo che molto spesso riscrivo in maniera del tutto diversa.
    A questo punto martello le frasi, plasmo le parole, caccio i termini deboli, sostituisco quelli imprecisi. Lavoro sulla cadenza.
    Questo, per me, è il piacere dello scivere.

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  2. Grazie per il commento! In genere io scrivo di getto e poi torno sul racconto dopo qualche giorno. Questi vengono modificati un po' ogni giorno.

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